sabato 27 ottobre 2018

Ombre cinesi su Bologna ... frammenti due




Gli spazi sono colorati, soprattutto verde relax, azzurro tenue e sullo sfondo della parete domina un’immagine tridimensionale luminosa di colline a perdita d’occhio, cieli azzurri, nuvole bianche in corsa, che realizza nella stanza l’illusione dello spazio, molto spazio, tutto da percorrere ed esplorare. Enrico pensa per un istante che gli piacerebbe scappare in quell'orizzonte in quel panorama sconosciuto e rassicurante, poi scorge Irene, unica presenza nella stanza, sente la musica, riconosce i Coldplay, riconosce la canzone Fix You e un ricordo riaffiora istantaneo, si rivede poco più giovane, non ancora intossicato, abbracciato a una ragazza di cui non ricorda il nome, gli torna in mente un brano della canzone, But you can’t sleep, stuck in reverse, e non riesce a mettere insieme i ricordi, non riesce davvero a ritrovare il nome della ragazza, anche se è convinto di averla molto amata,
e cerca di fermare il ricordo, cerca di non farlo dissolvere, ma l’immagine svanisce e lui si lascia cadere a terra, dritto come un fuso, ritrovandosi seduto con la testa fra le mani, e non vede Trebbi che nello stesso tempo si è seduto davanti a Irene, gambe incrociate intento a sorriderle, accarezzandole lieve i capelli puliti, il viso, mentre lei rimane immobile, le labbra imbronciate in un’espressione remota, assente, indifferente a qualsiasi accadimento esterno.

«Ciao Irene, ti ho portato un amico, voleva tanto conoscerti».
Enrico alza il capo, asciuga lacrime involontarie e inaspettate, incomprensibili e rabbiose e non riconosce il tono ora dolce, morbido del vecchio.
«Si chiama Enrico, è un gran coglione e non sa che se continua a
bruciarsi quel poco di neuroni che ancora funzionano si ritroverà come
te a giocare in questa bella stanza morbida, perché non provi a dirglielo
tu?».
Il tono è quello delle favole che si raccontano ai bimbi per indurli al sonno, è quello che serve per rassicurare, accarezzare gli animi, coccolare le persone amate, e donare loro un senso di sicurezza, accoglienza e consolazione. Enrico non si capacita che il vecchio ruvido sia in grado di parlare in quel modo, poi guarda Irene che alza appena il capo inseguendo la musicalità delle parole, forse la familiarità della voce, una voce conosciuta e amica.
Sembra intenta a rielaborare il messaggio, si volta per una frazione di secondo verso l’ospite, poi gli occhi tornano al cubo di gomma morbida che tiene fra le mani e che continua a ruotare con una lentezza innaturale per una persona normale, una moviola interminabile dove il tempo non ha nessun significato, si perde, perde consistenza e insieme al tempo la realtà, la concretezza del quotidiano,
il senso del vivere, e tutto ciò che compone il mondo al di fuori di quella stanza.

 È un movimento ipnotico nel quale Enrico si perde.
«Irene è mia figlia, e non si formalizza, né si offende, non si dispiace, non sa cosa sia senso di colpa, paura di invecchiare, preoccupazione per il futuro, non ha interesse a trovare un fidanzato e ha completamente smesso di fumare, bere e farsi».

Enrico adesso è attento.
«Si è fottuta il cervello con un’overdose e non parliamo di quella della canzone di Zucchero, ma di eroina e cocaina, probabilmente, perché in queste cose non c’è mai certezza. Un suo amico, un coglione come lei, l’ha abbandonata come un sacco di stracci davanti al pronto
soccorso ed è sparito».

Enrico continua a guardare lei e poi Trebbi, con movimenti pigri del capo.

«Perché ti ho portato qui? Semplice, a me non interessa se tu vuoi fare la sua fine, o morire, o diventare presidente del Consiglio, io voglio sapere il nome del figlio di cane che ti ha passato la metanfetamina la sera al Parco Nord. Tu ci sei quasi rimasto; alla tua amica, o quello che è, ha bruciato buona parte del cervello e, vedi, io, non ci crederai, ho poco da perdere, se mi dici quel nome dopo, subito dopo, puoi andare a farti fottere dove meglio credi, se non me lo dici, sarà mio impegno e piacere fare in modo che il tuo futuro diventi talmente doloroso da farti rimpiangere questo presente decisamente mediocre, devo aggiungere altro?».

Enrico guarda Irene, poi guarda Trebbi, «Quanti anni ha?», chiede, e per la prima volta la sua voce sembra quasi naturale.

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