Tratto da un romanzo di fantascienza del 1993, il film appartiene alla classe dei romanzi distopici:
per distopia (o antiutopia, pseudo-utopia, utopia negativa o cacotopia) s’intende una società indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Il termine, da pronunciarsi “distopìa”, è stato coniato come opposto di utopia ed è soprattutto utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata in un futuro prossimo) nella quale le tendenze sociali sono portate a estremi apocalittici.
A me viene in mente La città e le stelle di Clarke del 1956, per esempio.
La differenza fra questo filone (3 romanzi) e altri del genere, è l'idea di base, la costruzione di un mondo residuale, in bianco e nero, dove le emozioni non ci sono, o sono ridotte al minimo.
Niente dolore, né malattie, né odio, né amore, né morte, etc etc.
L'uomo è sopravvissuto a se stesso in questa storia e ha imparato la filosofia dell'anafettività generalizzata.
Due mostri sacri a tenere in piedi il film, Jeff Bridges e Meryl Streep e uno stuolo di giovanissimi attori.
Ultima considerazione.
Fra il nostro modello sociale che definirei nuovo medioevo e quel modello cinematografico per daltonici dell'anima, quasi quasi faccio un abbonamento al secondo, davanti all'orrore quotidiano, terremoto compreso, diventa logorante aspettare sempre il peggio.
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